Via Duca d’Aosta, 16, Matino (LE)

Abbiamo ancora bisogno di Federico II?

Il Centro Studi ha ricevuto – e pubblica volentieri – uno scritto del Prof. Caramuscio relativo alla figura dell’imperatore svevo Federico II – personaggio eclettico e intrigante che, fin dalla sua epoca, ha polarizzato l’attenzione degli storici e del popolo.

Il Prof. Giuseppe Caramuscio (Lecce, 1960) insegna Filosofia e Storia presso il Liceo Scientifico “G.C. Vanini” di Casarano (LE).
Componente del Direttivo della Società di Storia Patria per la Puglia – sez. di Lecce, Il Prof. Caramuscio collabora con la cattedra di Storia moderna dell’UniSalento (prof. Mario Spedicato).
Nella sua attività di ricerca privilegia temi di storia sociale, situati tra l’Otto e il Novecento, partendo dal territorio corrispondente all’antica Terra d’Otranto, per poi allargarsi a dimensioni geografiche più estese.
Ha inoltre curato alcuni volumi dedicati ai profili di intellettuali salentini del Novecento.



Abbiamo ancora bisogno di Federico II?

Molti storici hanno definito Federico II il primo sovrano moderno. Bisogna quindi, in via preliminare, chiarire cosa si intende per modernità. Intanto in senso strettamente storiografico il termine moderno, come il suo corrispettivo medioevale, non assumono di per sé alcuna valenza positiva o negativa. Solo un’interpretazione ingenua della modernità potrebbe ancora accettare l’equazione moderno = migliore. Una definizione accettabile potrebbe essere formulata nei seguenti termini: un insieme di mutamenti, che investe tutti gli ambiti dell’esistenza umana, trasformandoli in modo sempre più ampio e accentuato, fino a rendere lo scarto con la realtà medioevale del tutto irreversibile. L’esempio più classico è quello della scoperta dell’America, una novità così radicale da investire commercio, tecnica della navigazione, equilibri politici, economia e cultura e da assumere la funzione di spartiacque tra due epoche.

A complicare però il concetto di modernità intervengono diversi fattori storici, che rendono impossibile considerare un’epoca completamente moderna, o medioevale. Nel Settecento, ad es., elementi di trasformazione in senso scientifico convivono con strutture giuridico-sociali tipiche della feudalità (la società divisa in Ordini o Stati). Questo vale anche per singole figure che da un lato appaiono più avanzate rispetto al loro tempo, dall’altro rimangono legate alla tradizione.

Antefatto

Dobbiamo intanto ricostruire le circostanze storiche che hanno reso possibile il dominio di Federico II su un’entità geo-politica per noi atipica (il Sacro Romano Impero – SRI), tra il 1211 e il 1250. Va ricordato, infatti, che il SRI costituì l’asse portante della politica europea nel Medioevo e nella prima Età moderna o e nello stesso tempo un “mito operativo”. Mito perché si basava sulla suggestione di ideali impossibili da realizzare, quali l’obbedienza di aree diverse e distanti fra loro ad un unico centro di potere, e contestualmente l’aspirazione ad un perfetto coordinamento della politica imperiale con il progetto universalistico della Chiesa; operativo perché comunque faceva riferimento ad un processo storico effettivamente verificatosi, cioè la sintesi fra l’elemento latino e quello germanico (a livello giuridico, sociale e persino etnico), già in corso durante il tardo Impero Romano. Ed operativo, infine, perché sollecitava continuamente forme pratiche di attuazione: se le strategie dell’Impero e del Papato erano in competizione fra loro, tuttavia in non pochi casi riuscivano a trovare accordi convenienti per entrambi.

Dal punto di vista geografico il SRI comprendeva – con il beneficio dell’inventario, perché durante il Medioevo non esistevano confini ben delimitati e stabili – la parte centrale dell’Europa, corrispondente alle attuali Germania, Paesi Bassi, Lussemburgo, Boemia, Austria, alla parte sud-orientale del Belgio, alle regioni più orientali della Francia, all’Italia continentale (con l’esclusione di Venezia e dello Stato della Chiesa, che inglobava la parte centrale) e insulare. Come si può notare, tale area corrisponde sostanzialmente a quella dei Paesi firmatari dei Trattati di Roma del 1957, fondamentale passaggio della costruzione dell’Unione Europea. Dal punto di vista giuridico-politico questo vastissimo territorio rappresentava un mosaico di forme amministrative, che davano luogo a regimi molto differenti tra loro. C’erano città libere e affrancate dal pagamento di molti tributi, ampi possedimenti agrari variamente regolamentati al loro interno, veri e propri Stati regionali strutturati secondo criteri dinastici. Quello che teneva insieme tale eterogeneità era la formale obbedienza al sacro romano imperatore, e una serie di vincoli fiscali, militari ed economici, variamente modulati in rapporto agli accordi stipulati tra i diversi poteri.

L’evento decisivo che collocò il giovanissimo principe di Svevia al centro della politica internazionale fu la battaglia di Bouvines, che doveva risolvere uno dei tanti problemi sopra accennati, cioè quello dei feudi francesi sottomessi all’autorità del sovrano inglese. All’epoca, infatti, il diritto feudale poteva prevedere queste situazioni – per noi atipiche – in cui un sovrano poteva essere vassallo di un altro. Né ci deve stupire l’interesse egemonico dell’Inghilterra sul territorio francese, perché per buona parte del Medioevo la potenza d’Oltre Manica perseguì una politica continentale. Inoltre, il trono del SRI era rimasto vacante per l’immatura scomparsa del figlio di Federico Barbarossa, Enrico VI, che lasciava erede un figlio, Federico, di appena tre anni, posto sotto la tutela di Innocenzo III. Lo stesso papa sostenne la candidatura di Ottone di Brunswick, divenuto imperatore con il nome di Ottone IV, che avanzò pretese su territori pontifici e dell’Italia meridionale, provocando la reazione del papa che, dopo averlo scomunicato, proclamò nel 1211 imperatore il giovane Federico che allora aveva 17 anni.

La battaglia, che ebbe luogo nel 1214, può a ragione essere considerata la più importante del Medioevo, un vero e proprio crocevia della storia d’Europa, perché da essa scaturirono conseguenze decisive sul futuro delle principali potenze europee. Ottone IV, ottenuto l’appoggio del re d’Inghilterra Giovanni Senza Terra, schierò le sue truppe contro l’esercito di Federico, sostenuto dalla Francia di Filippo II Augusto: la battaglia vide il successo di Federico, che poté consolidare il suo potere imperiale. Questo giovanissimo sovrano (all’epoca ventenne), a causa della precoce scomparsa dei suoi genitori (il padre a 3 anni, la madre l’anno dopo), si era trovato a ereditare, oltre ai territori del SRI, anche il Regno normanno di Sicilia in seguito alla morte della madre – appena un anno dopo quella del padre – erede del Regno normanno.

Fatti

Incoronato re di Germania nel 1214 e definitivamente imperatore nel 1220, Federico si impegnò a trasmettere il Regno di Sicilia al figlio Enrico, così come imposto dal papa, che temeva di essere accerchiato dall’unione dell’Impero e del Regno dell’Italia meridionale. Innocenzo si era posto come convinto assertore, nelle parole e nei fatti, della superiorità del potere religioso su quello politico: al papa spettava la direzione completa del mondo cristiano e quindi l’Impero sarebbe stato solo esecutore di ordini.

Federico non mantenne l’impegno assunto, approfittando dell’elezione di un pontefice più accomodante come Onorio III, dando luogo a una lunghissima serie di schermaglie e di conflitti con il Papato. D’altra parte era normale, nel Medioevo e per la prima parte dell’Età moderna, che la diplomazia pontificia operasse continui e apparentemente inspiegabili voltafaccia: lo Stato della Chiesa ha rappresentato per lunghi secoli un’altra anomalia nella geo-politica dell’epoca. Troppo piccolo per costituire una potenza di livello militare, troppo grande per essere fagocitato da altre; debole quanto a struttura amministrativa e militare, però autorevole per potere di moral suasion; universale per vocazione, ma legato ad una politica italiana, o addirittura romana, per necessità di cose; presunto arbitro tra i governi, si appoggiava altresì all’alleato più affidabile di turno. Era assai difficile, quindi, che una siffatta realtà politico-territoriale potesse mantenere una certa coerenza nella strategia internazionale.

La politica di Federico fu quindi tesa a ridimensionare il peso del Papato, sia nel suo territorio che nella politica internazionale: per questo combatté contro i privilegi ecclesiastici presenti nel Regno meridionale, che al pari di quelli dei feudatari e delle città costituivano tanti poteri all’interno di un potere regio che egli voleva incontrastato. Per tale scopo cercò di ridurre il prestigio della Chiesa romana, che si appoggiava anche ai Comuni italiani del Centro-Nord per avversare il potere imperiale.

La Chiesa faceva delle Crociate il momento della sua più elevata affermazione come potere morale e universale: non a caso tra gli impegni assunti dal neo-imperatore c’era stato quello di organizzarne una. La sesta crociata di fatto non iniziò mai, perché si risolse in una soluzione negoziata tra il sultano del Cairo e il sultano svevo, che spuntò condizioni favorevoli al pellegrinaggio cristiano. Questo episodio, considerata dal papa un tradimento dello spirito della Crociata, costò a Federico un’altra scomunica (ne totalizzò ben tre durante il suo regno).

Nel campo della legislazione civile, Federico è da ricordare per l’emanazione delle Costituzioni Melfitane, così denominate perché promulgate a Melfi nel 1231, una raccolta di leggi redatta da esperti del diritto romano e feudale, con le quali si affermavano i principi fondamentali dello stato moderno, cioè la superiorità del potere centrale quale fonte del diritto, nell’amministrazione della giustizia e nel monopolio nell’uso legale della forza.

L’immatura e misteriosa scomparsa di Federico II avvenne quando egli era impegnato in una ennesima spedizione contro i Comuni italiani ribelli, nel 1250, lasciando le parti del suo dominio in balìa dei suoi nemici di sempre: la situazione verrà risolta da una lunga serie di scontri militari, che modificherà radicalmente gli assetti di potere nell’Italia meridionale.

Federico nella storiografia di ieri e di oggi

Nella ricostruzione dell’opera e della personalità di Federico II, curata dagli storici novecenteschi, un elemento comune è stato dato appunto dal considerare l’imperatore come un precursore dello Stato moderno, estraneo ai modi di sentire la politica, la cultura e la vita tipici della mentalità medioevale. Inevitabilmente, ogni studioso ha riversato su questa figura ansie, interrogativi, illusioni del proprio tempo. I primi apologeti di Federico sono stati gli storici di parte ghibellina, seguiti dagli intellettuali di formazione illuministica, che hanno visto in lui il campione della lotta per l’affermazione dello stato laico, tollerante di tutte le religioni, nemico dei privilegi ecclesiastici, aperto alle culture altre. Viceversa, molto duri sono stati i toni utilizzati dagli uomini di Chiesa che hanno dipinto Federico come il nemico della fede, un amico degli infedeli, un miscredente dedito a pratiche demoniache.

Il primo autorevole studioso che ha sottolineato la modernità del sovrano è stato il tedesco Ernst Kantorowicz, che ha ricostruito l’opera di Federico negli anni in cui Hitler raccoglieva crescenti consensi in Germania intorno alla visione del Terzo Reich. Lo storico ritenne Federico un uomo geniale, «al di là del bene e del male», creatore di uno Stato del tutto nuovo.

Un originale sviluppo delle conclusioni di Kantorowicz si può cogliere negli studi di Gabriele Pepe, il quale era convinto che un personaggio storico non è mai quale fu veramente, ma quale lo rifà ogni storico a seconda della sua problematica. Il Federico che Pepe voleva capire, forte della vissuta esperienza della lotta antifascista, era il Federico “tiranno”. «È sempre identico il volto della tirannide? Può esistere un tirannide “positiva”? Ebbe positività la tirannide di Federico II?». Lo storico coglie nelle lotte di Federico II l’avanzare della concezione, ignota alla società medioevale, «di uno Stato senza moralità e senza Chiesa». Ma quando si celebra la mirabile organizzazione che nel Regno di Federico garantì l’efficienza dell’apparato fiscale, si deve anche considerare che il sistema provocò guasti irreparabili all’economia del territorio. Se è vero che Federico favorì il commercio guadagnando al Mezzogiorno d’Italia mercati fino allora aperti solo ai Veneziani e ai Genovesi, è vero anche che perseguì un’esosa politica monopolistica a vantaggio del fisco regio, per cui lo Stato divenne «il primo agricoltore, il primo industriale, il primo commerciante del Regno». Per far affluire alle casse statali una quantità sempre maggiore di danaro, Federico impose ai sudditi esorbitanti gravami fiscali: alle preesistenti dieci normanne, egli aggiunse ventuno imposte indirette. Questa politica impedì, secondo Pepe, l’accumulazione di capitali privati, determinando il ristagno nella produzione e l’immiserimento del Regno. Di fatto mancò nelle Regioni meridionali l’affermazione dell’economia di tipo capitalistico, che cominciò a svilupparsi nello stesso periodo nell’Italia centro-settentrionale. La mancanza di separazione tra il patrimonio personale del re e quello dello Stato complica la possibilità di avere dati precisi sul bilancio del Regno, ma è indubbio che dovette assoggettarsi a prestiti dagli interessi molto alti anche per mantenere un esercito costituito in gran parte di mercenari.

Raffaello Morghen sottolinea piuttosto la continuità con il pensiero e la tradizione medioevali. Dai suoi antenati svevi ereditò gli ideali della politica imperiale, dai Normanni derivò in parte i sistemi del governo accentrato, dagli Arabi le abitudini orientali della vita di sfarzo e di piacere, che sintetizzò in uno spirito potente, in cui appariva in germe il nuovo uomo, spregiudicato, conscio della sua forza e curioso di conoscere la natura. Secondo Morghen, Federico cadde perché il suo progetto andava al di là delle sue forze. Se non avesse disperso le sue energie e avesse circoscritto la sua azione, forse avrebbe potuto essere il fondatore di una nuova dinastia nel Mezzogiorno d’Italia. Ma egli non voleva interrompere la tradizione normanno-sveva della lotta contro la Chiesa teocratica, i Comuni e la feudalità. Federico non scelse però la via del compromesso che i suoi antenati avevano scelto nei confronti di alcuni di questi avversari.

Lo storico inglese di origine ebraica David Abulafia considera invece l’opera dell’imperatore tutta dentro allo spirito del Medioevo, fondamentalmente come una politica dinastica, contraddistinta dall’asprezza della lotta contro il papa. Come i più potenti sovrani d’Europa, egli tendeva a tramandare ai suoi eredi i territori che aveva ereditato e sottomesso, stabilendo se ripartirli tra i figli o passargli in blocco al primogenito. Questa sua politica venne condizionata da due fattori: le pretese del pontefice e la ribellione del figlio maggiore Enrico.

Federico II è stato altresì celebrato come un mecenate, fama dovuta al fatto che nel 1224 fondò l’Università di Napoli e creò la famosa corte palermitana richiamando intellettuali da varie parti del mondo allora conosciuto, compresi i dotti musulmani. Abulafia tende invece a ridimensionare la novità della vita culturale alla corte di Sicilia, sottolineando la scomparsa di quell’amalgama culturale che era stato caratteristico della cote normanna, il venir meno di quella fioritura intellettuale che egli invece riscontra nel mondo spagnolo coevo. Per giunta la corte di Federico aveva un carattere itinerante, sia perché i possedimenti tedeschi e dell’Alta Italia impedivano all’imperatore di domiciliarsi in un’unica base e sia perché negli anni trenta e quaranta le campagne militari lo tennero in movimento per lunghi periodi in Lombardia e in Italia centrale. La scuola poetica siciliana, di cui egli incoraggiò la nascita e la produzione, era in sintonia con le più avanzate tendenze della cultura europea, in particolare con il modello provenzale, che esprimeva il sentimento amoroso come un omaggio alla dama, lontana e inaccessibile. Secondo Abulafia, Federico cercò, per quanto poteva, di rimediare al disordine di un’esistenza nomade mantenendo intensi scambi epistolari, quasi una sorta di “corso per corrispondenza” con scienziati ebrei e musulmani. Pur essendo i suoi interessi culturali più ampi rispetto ai suoi colleghi francesi e inglesi, questo non vuol dire, a giudizio dello storico inglese, che la sua corte anticipasse quelle rinascimentali, quanto piuttosto che volesse propagandare la sua immagine di uomo di cultura, tra i cui contenuti rientravano anche le pratiche esoteriche.

Hubert Houben, storico di nascita tedesca ma salentino d’adozione, docente di Storia medioevale presso l’Università del Salento, propone una sintesi tra le opposte interpretazioni: Federico ha indubbiamente indicato la via per la costruzione dello Stato moderno, ma lo fece a caro prezzo e senza un disegno organico e coordinato. Nello stesso periodo anche le monarchie d’Inghilterra e di Francia stavano attuando politiche centralizzanti, caratterizzate dal passaggio del principio personale a quello territoriale, cioè dal rapporto tra sovrano e sudditi a quello tra la legge e gli individui. Il prezzo che il sovrano pagò fu la sconfitta della casata sveva a vantaggio di una dinastia francese sensibile alla pretese universalistiche del Papato. Per lungo tempo, da parte tedesca, si è rimproverato a Federico di aver trascurato la Germania in favore dell’Italia, aprendo così la strada alla frammentazione politica dell’Impero. Va però tenuto conto del fatto che in Germania, al tempo di Federico II, il processo di formazione delle Signorie regionali era avanzato a tal punto da rendere difficile l’affermazione di un potere centrale in grado da contrastare le spinte centrifughe. Se il sovrano svevo si fosse concentrato sulla parte tedesca del suo Impero, avrebbe dovuto rinunciare al suo compito di leader europeo, strettamente connesso con il titolo imperiale. Dal momento che Federico assommava nella sua persona i titoli di re di Sicilia e di imperatore romano-germanico, il regno meridionale acquisì un carattere meno periferico, conoscendo nuovi legami con il resto d’Italia e d’Europa, fissando a Palermo il baricentro di un Regno. Questa scelta venne però abbandonata dai sovrani angioini, che preferirono Napoli come nuova capitale. Houben ritiene quindi che Federico sia stato sostanzialmente un sovrano medioevale, che la sua politica nel Mezzogiorno d’Italia abbia seguito le orme dei suoi predecessori normanni, dei quali riprese e sviluppò l’apertura multiculturale, gli interessi scientifici e le forme di rappresentazione del potere. Federico non fu quel “miracolo del mondo” in anticipo sui tempi, ma in modo inconsapevole aprì la strada a tempi nuovi.

Federico II è una personalità che riflette queste contraddizioni e quindi risulta difficile da catalogare. Infatti, da una parte il suo bagaglio mentale è tutto medioevale: il suo modo di concepire il potere (derivato da Dio), il ruolo che attribuisce all’autorità imperiale e il simbolismo che la circonda. Dall’altra, rispetto all’Alto Medioevo cogliamo in Federico II lo sforzo di limitare il potere dei nobili, di concentrare la giustizia il più possibile nelle mani del sovrano e dei suoi rappresentanti, di assicurare allo Stato il monopolio della violenza legale e il controllo sulla vita economica.

Federico a scuola

I programmi per la scuola superiore hanno ridato visibilità a Federico II e al suo tempo, a partire dall’a.s. 2012-13, quando la nuova periodizzazione degli eventi storici ha incluso il Basso Medioevo, accorpato nelle precedenti Indicazioni Nazionali all’età romana. I manuali di Storia in adozione mettono in risalto la figura polivalente del sovrano, ma ospitano pareri interpretativi molto diversi: ritagliano box per Castel del Monte, espressione della potenza imperiale attraverso una misteriosa simbologia architettonica; sottolineano lo spirito di osservazione naturalistica, evidenziato da Federico nei suoi scritti venatori, l’uso spregiudicato della Crociata, la fondazione della scuola poetica siciliana; ridimensionano però la portata delle sue disposizioni amministrative e della sua lotta anti-papale. La figura e l’opera di Federico vengono generalmente inquadrate, nei libri di testo, nell’ambito della storia di lungo periodo della lotta tra Impero, Papato e Comuni.

Non possiamo dimenticare che Castel del Monte oggi rappresenta una delle mete più gettonate dal turismo scolastico, non solo a causa della sua ubicazione facilmente percorribile nell’arco della giornata da tutte le parti della Puglia, ma anche per la fruizione didascalica dovuta al fascino esoterico della sua complessa simbologia architettonica, che ne fa un’icona dello spirito medioevale.

L’uso pubblico di Federico

A sottolineare il legame privilegiato fra l’imperatore svevo e la Puglia ricordiamo due iniziative nate nella nostra Regione. La Gazzetta del Mezzogiorno, 1994, nell’occasione dell’ottavo centenario della nascita dello Svevo, pubblicò a puntate in allegato al quotidiano dei fascicoli, ognuno dei quali ricordava un tratto della figura del sovrano, con un occhio particolare al territorio pugliese, rivisitandone le tracce ivi disseminate.

Nel 2008 Marco Brando, giornalista che ha lavorato per sette anni in Puglia per il “Corriere del Mezzogiorno”, ha effettuato un’inchiesta sulla nascita del mito del sovrano svevo e su come oggi è recepito. Come ha scritto il noto medievista Franco Cardini: Federico si trova «su un triangolo i cui vertici sono la Puglia con il suo Federico glorificato e onnipresente, l’Italia settentrionale con il suo Federico malinteso e deprecato, la Germania col suo Federico negato e nascosto». In Germania la notorietà dello Hohenstaufen è superata, nei sondaggi d’opinione sui personaggi storici, da suo nonno Federico Barbarossa e da un altro Federico II, l’Hohenzollern di Prussia, nonché da divi dello sport e dello spettacolo.

In Italia settentrionale spicca il caso di Parma, medaglia d’oro della Resistenza: nella targa commemorativa che celebra i meriti della città emiliana nella lotta contro il nazismo, si parla di «vittoria sulle orde di Federico Imperatore » e di come i partigiani abbiano emulato i parmensi del 1248 che sconfissero l’esercito imperiale alle porte del loro Comune. La Lega, che non a caso ha adottato nome e simboli recuperandoli dal repertorio della lotta dei Comuni lombardi contro il Barbarossa, rappresenta i sovrani tedeschi come dei tiranni liberticidi, più vicini a un immaginario contemporaneo figlio di un revival romantico che a quello più aggiornato dal punto di vista storiografico.

Conclusioni

Sia l’immaginario leghista che quello pugliese risultano essere il risultato di un’operazione identitaria di riempimento di un vuoto politico. Al di là del bisogno di un riconoscimento collettivo forte e motivante, c’è anche una più o meno consapevole rimozione della Storia, della sua concretezza e della sua multidimensionalità, a vantaggio di qualità, che già manifestatasi limpidamente nel passato, si vorrebbero altrettanto limpidamente riscontrare nel presente.

La riflessione storiografica tradisce sempre l’ambivalenza cui è destinata per vocazione. Attenta da un lato a non giustapporre al passato lo sguardo del presente, trova forza proprio da questo per sviluppare nuove indagini o pensare a modi inediti di accostarsi alle tracce del tempo, indipendentemente da quanto esse siano trascorse. Non dobbiamo dimenticare l’enorme distanza che ci separa da Federico e la sua storia. Eppure è forte la tentazione oggi di confrontare il progetto di Federico con l’attuale visione tesa ad attribuire una rinnovata centralità al Mediterraneo. La Storia taglia e ritaglia aggregazioni geo-politiche sempre nuove, dimostrando come anche la geografia non sia una scienza neutra, ma ideologica. La concezione di Palermo come parte meridionale di un’Europa che guarda al Maghreb, ai nostri giorni trova conforto nell’aumentata apertura dell’Unione Europea al commercio con Tunisia, Marocco e Algeria. La politica federiciana del compromesso con gruppi e poteri musulmani, superando gli steccati religiosi, sembra anticipare gli attuali tentativi di dialogo con l’islamismo moderato. Lo spostamento del baricentro europeo a sud propone un altro quadro dell’Europa, ben differente da quello prescelto da due altri illustri sacri imperatori, Carlo Magno (centro ad Aquisgrana) e di Carlo V (corte a Gand). Si tratta di chiedersi come far convivere le identità plurime di un progetto europeo, attualmente in forte crisi per la mancanza di una prospettiva di ampio respiro e per l’affermarsi di tendenze isolazionistiche, nazionalistiche se non proprio xenofobe. Quali Paesi l’Europa attuale si scegli quali partner privilegiati? Il mondo delle multinazionali anglo-sassoni e degli USA in particolare, smaniose di penetrare nel mercato dell’UE forzando le rigorose regole europee di controllo sulla qualità dei prodotti alimentari e farmaceutici? La Turchia e un mondo balcanico non del tutto conforme ai parametri dell’Occidente? Federico, con gli strumenti ideologici e politici a lui più congeniali, pose sul tavolo tali questioni, usando la realpolitik, cioè una pratica scevra da indirizzi dogmatici precostituiti e più attenta ai fatti. Forse fu questo il suo limite. Chiedersi quanto egli fosse credente o miscredente o laico equivale a porsi la stessa domanda per tutti gli uomini di potere, compresi quelli odierni che parlano di “diritti umani” o di “esportazione della democrazia”.

Federico ci ha lasciato un’altra eredità pesante: l’uso delle immagini allo scopo di rafforzare il potere. Si può dire che questo processo sia stato avviato sin dalla sua nascita, allorquando venne dato alla luce in una tenda a Jesi. Il lieto evento venne prontamente trasformato da sua madre in uno spettacolo per fugare i dubbi sulla genitorialità e sul sesso del neonato: a immortalarne la portata provvidero diverse illustrazioni dell’epoca. Ma quando fu lo stesso Federico a controllare la produzione iconografica, non esitò a farsi raffigurare nelle vesti da lui predilette: l’imperatore con i simboli di “re dei re”, il rifondatore e protettore della cultura meridionale, lo studioso dell’arte venatoria, il diplomatico intento a conversare amichevolmente con il sultano per concordare le condizioni di un accordo sulla Terrasanta.

Giuseppe Caramuscio


Bibliografia

Aa. Vv., Federico. Mito e memoria, Cittadella (Padova), Biblos, in collaborazione con “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 1994.

D. Abulafia, Federico II. Un imperatore medioevale, Torino, Einaudi,1990.

F. Bertini, Tavola rotonda. Federico II: un re medioevale o moderno?, in Alla ricerca del presente, 1, Dal Mille al Seicento, Milano, Mursia Scuola, 2012, pp. 70-73.

M. Brando, Lo strano caso di Federico di Svevia. Un mito medievale nella cultura di massa, Bari, Palomar, 2008.

G. De Luna – M. Meriggi, Intervista impossibile – 6 domande a Federico II, Sulle tracce del tempo, Corso di Storia, 1, Dall’XI secolo alla metà del Seicento, Milano-Torino, Paravia-Pearson, 2014, pp. 82-83.

V.L. De Netto, Federico II di Svevia: Rivoluzionario o conservatore?, Avellino, Il Cerchio, 2013.

F.M. Feltri – M.M. Bertazzoni – F. Neri, Modernità: un concetto sfuggente, in Tempi. Corso di Storia per il secondo biennio e per il quinto anno, 1, Dall’età feudale al Seicento, p.110.

E. Kantorowicz, Federico di Svevia, Milano, Garzanti, 1938.

H. Houben, Federico II, Bologna, il Mulino, 2009.

R. Morghen, Medioevo cristiano, Bari, Laterza, 1968.

G. Pepe, Lo stato ghibellino di Federico II, Bari, Laterza, 1938.